(Dal Commentario di Charles Hodge a I Corinzi 12:10)
Charles Hodge (1797-1878)
"Ad un altro diversità di lingue." Ovvero, la capacità di parlare
in linguaggi precedentemente sconosciuti a chi parla. La natura di
questo dono è determinato dal resoconto in Atti 2:4-11, dove viene detto
che gli apostoli parlavano "in altre
lingue, secondo che lo Spirito dava loro a ragionare;" e le persone di
tutte le nazioni vicine chiedevano stupite, "Tutti costoro che parlano
non sono Galilei? Come dunque li udiam noi parlare ciascuno nel nostro
proprio linguaggio nativo?" È impossibile negare che il miracolo
riportato in Atti consistesse nel rendere capaci gli apostoli di parlare
in linguaggi che non avevano mai appreso. A meno che, dunque, non si
presuma che il dono di cui parla qui Paolo fosse qualcosa di natura
completamente diversa, il suo carattere è fuori discussione.
L’uguaglianza dei due, tuttavia, è dimostrata dall’uguaglianza dei
termini con cui sono descritti. In Marco 16:17, fu promesso che i
discepoli avrebbero parlato "in nuove lingue." In Atti 2:4, viene detto
che essi parlavano "in altre lingue." In Atti 10:46, e 19:6, viene detto
che coloro sui quali venne lo Spirito Santo "parlavano in lingue."
Difficilmente si può dubitare che tutte queste forme d’espressione siano
da intendersi nel medesimo senso: che parlare "in lingue" in Atti 10:46,
significa la stessa cosa di "parlare in altre lingue," in Atti 2:4, e
che questo di nuovo abbia lo stesso significato di parlare "in nuove
lingue," come promesso in Marco 16:17. Se il significato della frase è
dunque definito storicamente e filologicamente in Atti e in Marco, deve
essere ugualmente definito anche per l’Epistola ai Corinzi. Se lingue
significa linguaggi per il primo, deve avere lo stesso significato anche
per il secondo. Abbiamo dunque due argomenti in favore della vecchia
interpretazione di questo passo.
Primo, che i fatti narrati in Atti impongono l’interpretazione della frase "parlare in altre lingue" come di parlare in lingue straniere.
Secondo, che l’alternanza delle espressioni, nuove lingue, altre lingue, e lingue, in riferimento allo stesso evento, mostra che l’ultimo menzionato (parlare in lingue) deve avere lo stesso significato anche nelle espressioni precedenti, che possono significare solamente parlare in nuovi linguaggi.
Un terzo argomento è che l’interpretazione comune soddisfa tutti i fatti del caso. Questi fatti sono:
1. Che ciò che veniva detto in lingue era intelligibile a quelli che comprendevano i linguaggi stranieri, come è evidente da Atti 2:11. Quindi quel parlare non era un’incoerente, incomprensibile rapsodia.
2. Quelli che venivano pronunciati erano suoni articolati, veicolo di preghiera, lode e ringraziamento, I Corinzi 14:14-17.
3. Erano edificanti, e quindi intelligibili a chi le pronunciava, I Corinzi 14:4, 16.
4. Ammettevano interpretazione, il che presuppone che fossero intelligibili.
5. Sebbene fossero comprensibili in sé stesse, e a chi parlava, erano incomprensibili agli altri, ovvero, a quelli che non conoscevano la lingua utilizzata; e conseguentemente inadatte alla normale assemblea Cristiana. La follia che Paolo rimproverava era di parlare Arabo a uomini che comprendevano solo il Greco. L’oratore avrebbe anche compreso ciò che diceva, ma gli altri non ne avrebbero tratto profitto, I Corinzi 14:2, 19.
6. L’illustrazione impiegata in I Corinzi 14:7, 11, tratta dagli strumenti musicali e dal l’esempio degli stranieri, richiede l’interpretazione comune. Paolo ammette che i suoni pronunciati non erano "senza significato," v. 10. La sua protesta è che un uomo che parla in una lingua sconosciuta è per lui uno straniero, v. 11. Questa illustrazione presuppone che i suoni pronunciati fossero intrinsecamente intelligibili, ma non compresi da quelli ai quali erano indirizzati.
7. L’interpretazione comune è appropriata anche per quei passaggi che presentano l’unica vera difficoltà del caso, ovvero, quelli in cui l’apostolo parla della comprensione come infruttuosa nell’esercizio del dono delle lingue, e quelli in cui contrappone la preghiera con lo spirito a quella con la mente, 14:14-15. Sebbene questi passaggi, presi isolatamente, possano dare l’impressione di indicare che l’oratore stesso non comprendesse ciò che diceva, e che anche il suo intelletto fosse temporaneamente sospeso, tuttavia possono naturalmente significare solo che la comprensione dell’oratore non era di alcun profitto per gli altri, e che parlare con la comprensione potesse significare parlare in modo intelligibile. Non è necessario, quindi, dedurre da questi passaggi che parlare in lingue significasse parlare in uno stato di estasi, in una maniera incomprensibile a qualsiasi essere umano.
8. L’interpretazione comune è anche coerente con il fatto che l’interpretazione era distinta dal parlare in lingue. Se un uomo sapesse parlare una lingua straniera, perché non potrebbe interpretarla? Semplice, perché non era il suo dono. Ciò che diceva in quella lingua straniera, lo diceva sotto la guida dello Spirito; se avesse tentato di interpretarla senza il dono dell’interpretazione, avrebbe parlato da sé, e non "secondo che lo Spirito gli dava a ragionare." In un caso sarebbe stato l’organo dello Spirito Santo, nell’altro no.
Quarto argomento. Coloro che si allontanano
dall’interpretazione comune del dono delle lingue, differiscono
indefinitamente tra di loro riguardo alla sua vera natura. Alcuni
presumono che la parola lingue
(glossai) qui non significhi linguaggi, ma idiomi o forme
d’espressione peculiari e inusuali. Parlare in lingue, secondo questa
concezione, significa parlare in sublimi toni poetici, oltre la
comprensione delle persone comuni. Ma è stato dimostrato dalle
espressioni nuove e altre lingue, e dai fatti registrati in Atti, che la
parola glossai (lingue) qui deve significare linguaggi. Inoltre, parlare
in un linguaggio sublime non significa parlare in modo incomprensibile.
Le genti Greche comprendevano i toni più elevati dei loro oratori e
poeti. Questa interpretazione conferisce anche alla parola glossai un
significato tecnico estraneo a tutti gli usi scritturali, e uno che è
interamente inammissibile, almeno in quei casi in cui è usato al
singolare. Si può dire che un uomo parli con "frasi," ma non con "una
frase." Altri dicono che la parola significhi la lingua come l’organo
fisico della parola; e che parlare in lingue
significhi parlare in uno stato di eccitamento nel quale la comprensione
e la volontà non controllano la lingua, la quale è mossa dallo Spirito a
pronunciare suoni che sono incomprensibili sia all’oratore che agli
altri. Ma questa interpretazione non si adatta alle espressioni altre
lingue e nuove lingue, ed è inconciliabile con il resoconto di
Atti. Inoltre, degrada il dono ad un puro delirio. È priva di
correlazione a tutti i fatti Scritturali. Gli spiriti dei profeti sono
soggetti ai profeti. Coloro che avevano visioni nell’Antico Testamento
non erano fuori di sé, e gli apostoli nell’uso del dono delle lingue
erano calmi e razionali, descrivendo le opere meravigliose di Dio in un
modo che gli stranieri radunati a Gerusalemme comprendevano facilmente.
Altri, ancora, ammettono che la parola lingue significhi
linguaggi, ma negano che fossero linguaggi stranieri all’oratore.
Parlare in lingue, dicono, significava parlare in una maniera
incoerente, incomprensibile, in uno stato di estasi, in cui la mente è
completamente astratta dal mondo esterno, e inconsapevole delle cose che
lo riguardano, come in un sogno o in uno stato di trance. Questo,
tuttavia, è soggetto alle obiezioni già addotte contro le altre teorie.
Inoltre, è evidente dall’intera discussione che quelli che parlavano in
lingue avevano l’auto-controllo. Potevano parlare o non parlare come
volevano. Paolo li censura perché parlavano quando non ve n’era motivo,
e in un modo tale da produrre confusione e disordine. Non erano, quindi,
in uno stato di eccitazione incontrollabile, inconsapevoli di ciò che
dicevano o facevano. Non è necessario continuare con l’elenco delle
congetture; quanto è stato già detto sarebbe stato fuori luogo se le
opinioni menzionate non avessero trovato favore in Inghilterra o nel
nostro paese.
Gli argomenti contro la concezione comune della natura del dono delle
lingue (escluse le difficoltà esegetiche di cui si pensa sia gravata),
non sono tali da lasciare molto segno nelle menti abituate alla
riverenza delle Scritture.
1. Viene detto che non fosse necessario un miracolo, perché il Greco era compreso ovunque gli apostoli predicassero. Questo, senza dubbio, è in buona parte vero. Il Greco era la lingua delle persone istruite in tutto l’impero Romano, ma non aveva sostituito le lingue nazionali nella vita comune; né la predicazione degli apostoli era confinata ai limiti dell’impero Romano. Inoltre, questo presuppone che l’unico fine del dono fosse di facilitare la propagazione del vangelo. Questo era senza dubbio uno degli scopi a cui doveva dare risposta, ma aveva anche altri usi importanti. Serviva a provare la presenza dello Spirito di Dio; e simboleggiava la chiamata dei Gentili e la partecipazione comune di tutte le nazioni al vangelo. Vedi le note su Atti 2:4.
2. Viene detto che Dio non è solito rimuovere le difficoltà dalla via del Suo popolo per mezzo di miracoli, quando essi possono superarle con l’impegno.
3. Altri sentenziano che sia impossibile che un uomo possa parlare una lingua che non ha mai appreso. Ma da questo deriva forse che Dio non può dargli questa capacità?
4. È evidente che Paolo e Barnaba non conoscessero la lingua di Licaonia, in Atti 14:11-14. Il dono delle lingue, tuttavia, non consisteva nella capacità di parlare tutte le lingue. Probabilmente molti di quelli che ricevettero il dono, potevano parlarne solo una o due. Paolo ringraziava Dio perché aveva il dono in misura maggiore di tutti gli altri Corinzi.
5. È evidente che il dono non sia stato reso funzionale all’opera missionaria. Certamente lo era in prima istanza, come riportato in Atti, e può esserlo stato successivamente.
6. Paolo, in I Corinzi 14:14-19, non pone il parlare in lingue e il parlare la propria lingua in contrapposizione; ma il parlare con la comprensione e il parlare con lo spirito; e quindi, parlare in lingue significa parlare senza intendimento, o in uno stato di estasi. Questa è una possibile interpretazione di quest’unico passaggio se considerato isolatamente, ma è in contraddizione diretta di tutti quei passi che provano che parlare in lingue non fosse un modo di parlare involontario, incomprensibile ed estatico.
Il passo a cui si fa riferimento, dunque, deve essere compreso in armonia con gli altri passi che si riferiscono al medesimo soggetto. Anche se vi sono delle difficoltà presenti in qualsiasi interpretazione del dono in questione, che sorgono dalla nostra ignoranza, quelle connesse all’interpretazione comune sono incomparabilmente minori di quelle che affliggono ogni moderna congettura.
(Traduzione italiana da: http://www.federiformata.it/biblioteca/apologetica/hodge_lingue.html)
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